Cima delle Murelle

Per il sentiero dell'aeroplano e per la cresta Nord, forse la più bella cima della Majella, di certo uno dei sentieri più belli e ricco di motivazioni.
Durante l'anno per alcuni periodi chiuso agli escursionisti, è certamente uno dei più avvincenti dei nostri Appennini, i passaggi facili ma molto esposti e lo scenario che si apre davanti dopo il secondo tratto attrezzato sono puro fascino. Non capisco davvero come ho atteso così tanto per percorrerlo.


Escursione da 10 quella di oggi, assolutamente una delle più belle che si possano fare sugli Appennini, per varietà dei panorami, per varietà dei passaggi, un paio di questi fanno sicuramente salire il livello di adrenalina e aggiungono sale al già ricco menù, per la bellezza della montagna in questione. E’ conosciuto come il sentiero dell’aeroplano; siamo in Majella, parlo ovviamente della splendida e dolomitica cima delle Murelle. La sognava da tempo Marina, alla pari del monte Amaro forse, ancora di più desiderava percorrere questo sentiero, ardito e appartato almeno come viene descritto nella diffusa letteratura che lo riguarda, ho sfiorato questo percorso tante volte ma non ho mai avuto modo di percorrerlo mentre ero salito già sulle Murelle, la curiosità non mi mancava, abbiamo unito gli stimoli e ci siamo organizzati. Abbiamo pernottato in zona per evitare lunghi spostamenti mattinieri, ormai siamo “comodosi”, la cosa ci ha permesso di essere già abbondantemente prima delle 8 al rifugio Pomilio, la giornata è chiara e luminosa, la speranza è che rimanga fresca e non ci faccia patire l’afa che questi giorni abbiamo vissuto a quote basse. Dal Pomilio è inevitabile subire la via crucis dell’avvicinamento su strada asfaltata fino al Blockhaus e impieghiamo circa 25 minuti per percorrere i 2 chilometri di asfalto che aggiriamo in parte sui pratoni fin tanto ci è possibile; nonostante il meraviglioso affaccio sulla Maielletta, sul vallone delle Tre grotte e sulle gobbe di Selvaromana che costituisce davvero un panorama stupendo all’inverosimile, questo tratto finisce per risultare come sempre un po’ noioso. Conoscendo a mala pena la storia di questa zona mi sono informato e credo valga la pena almeno accennare l’origine del toponimo Blockhaus che dà il nome al monte: per Blockhaus viene intesa un tipo di costruzione abitativa con pianta rettangolare e circondata da pareti in legno tipica dei territori tedeschi, una costruzione simile venne costruita nel 1863 nei pressi della cima e venne utilizzata come guarnigione per contrastare il brigantaggio che si andava diffondendo in quegli anni; ora rimangono le rovine della guarnigione, quello che rimane del muro perimetrale abbondantemente crollato e depredato. Superiamo il Blockhaus sul sentiero che lo aggira verso Nord, un po’ più lungo di quello che traversa sul versante Sud ma più veloce, meno sconnesso e privo di rami e radici dei mughi delle quali il primo è pieno; aggirandolo per questo verso ci si affaccia quasi subito sulle vastità della valle dell’Orfento e sulla lunghissima cresta del monte Pescofalcone, chi non ha un’idea delle dimensioni di questa montagna a questo punto riceve immediatamente il suo biglietto da visita. Si ritorna sul filo di cresta che divide la valle dell’Orfento da quella delle Tre grotte e di Selvaromana (+25 min.), un lembo di confine che prende il nome di Scrimacavallo. Sfiliamo sotto il monte Cavallo, stavolta vista la lunghezza del percorso che abbiamo davanti ignoriamo anche la piccola deviazione verso la tavola dei briganti e arriviamo sulla sella dell’Acquaviva dove oggi dalla fontana sgorga un forte getto d’acqua (+35 min.). Accanto alla fontana una palina metallica evidenzia l’incrocio col sentiero G7 che dobbiamo prendere sulla sinistra, proseguendo diritti si inizia la pettata ripida verso il bivacco Fusco e verso il Focalone. Sulla palina un cartello evidenzia che si tratta di un sentiero per escursionisti esperti e attrezzati, chiaro riferimento alle esposizioni e ai due famosi passaggi del sentiero dell’aeroplano, non rimaneva che imboccarlo e andare a verificare di persona la fama e la suggestione di questi passaggi. Il tracciato, tra un dedalo di intricati mughi prende a scendere lentamente fino a raggiungere, circa centro metri più in basso, un fosso che si inabissa poco sotto, verso la valle di Selvaromana; gli ambienti si fanno più selvaggi, di fronte si alza uno spigolo roccioso verticale e niente lascia intuire dove passi il sentiero. Superato facilmente il fosso la traccia riprende a salire lentamente, ancora nel mezzo di intricati mughi, fino a raggiungere uno spigolo roccioso nei pressi di una piccola grotta (+40 min.); poche decine di metri prima di raggiungerlo la via ci viene sbarrata da un giovane camoscio, era in ombra e ci accorgiamo di lui all’ultimo momento, ci aveva già scorti, era guardingo e ci controllava e si è lasciato fotografare senza paura; quando ci siamo mossi ha capito che saremmo passati di lì e ha lentamente preso la tangente, arrampicandosi sullo spigolo strapiombante che avevamo a non più di trenta metri. Tipico dei giovani curiosi e sicuro che su quello spigolo così esposto non l’avremmo potuto raggiungere, non si è dato alla fuga, ha continuato ad osservarci e mi ha permesso di scattare altre bellissime foto; come una star, ha deciso di non concedersi sul più bello e con due balzi si è regalato di nuovo la solitudine sui vertiginosi strapiombi aggirando lo spigolo e sparendo dalla nostra vista. L’incontro col caprino è stato un bel momento ma ora dovevamo concentrarci sul passaggio che avevamo davanti, una catena penzolava già evidente da lontano. Apparentemente esposto il passaggio si è rivelato facile una volta vicini, era pieno di appoggi e di appigli, la catena è comunque risultata più utile dalla parte opposta per scendere i pochi metri di dislivello, ha offerto sicurezza e non ci ha fatto notare la sporgenza e l’esposizione dello sperone che pochi metri più in là scendeva precipitevolissimevolmente verso gli inferi. Oltre lo spigolo la traccia continua per meno di 100 metri su un’ampia cengia erbosa fino ad un paretone verticale che sulla destra taglia di netto parte dell’orizzonte, davanti e lontana si impone la parte terminale della ripida e famosa parete Nord che scema nella valle Selvaromana, incute un senso di grande verticalità e di isolamento, in mezzo solo vuoto senza riuscire a vedere il fondo della valle, percepivamo coi sensi oltre che con la vista che stavamo entrando in un ambiente diverso, si intuivano esposizioni notevoli, qualcosa ci diceva che stavamo nei pressi del secondo passaggio importante; un po’ guardingo e molto stupito per l’improvviso cambio di scenario mi sono chiesto come abbia fatto ad aspettare tutto questo tempo per raggiungere questo posto così unico e meraviglioso. Via via che si avvicina lo spigolo la cengia si assottiglia fino a diventare rocciosa e larga non più di una sessantina di centimetri nel tratto più stretto, un cavetto d’acciaio alla parete offre sicurezza e si scivola intorno allo spigolo senza difficoltà, la fortuna in questi frangenti è che si è talmente concentrati che le esposizioni intorno si sentono ma non si vedono; solo dopo che ho superato lo spigolo, quando mi sistemo per cercare di fare qualche foto al passaggio di Marina, mi accordo che i vuoti non solo erano davvero vicinissimi ma erano anche dirompenti. Comunque semplice quanto impressionante questo secondo passaggio, a parer mio non si può improvvisare e per affrontarlo serve avere già delle esperienze del genere. Riposta l’adrenalina quando riprendiamo il sentiero che scorre sfiorando la parete ci accorgiamo che il palinsesto davanti è di nuovo completamente mutato, senza enfatizzare troppo e sicuro di non esagerare, la sorpresa è stata inaspettata e grandissima, si era aperto un angolo tra i più incantevoli e suggestivi di tutto l’Appennino, uno scrigno di montagna scritta tutta al maiuscolo. La parete Nord delle Murelle sulla sinistra, oltre la valle, incombeva verticale e gigantesca, un enorme muro, il famoso anfiteatro delle Murelle e la testata del braccio secondario di valle Selvaromana che si chiudeva alzandosi in un ghiaione, sembrava un pezzo di Dolomiti spostato in centro Italia, eravamo confusi per quanto era bella questa montagna. Ci sediamo per riuscire a vivere con completezza il tanto che c’era intorno, ci siamo sentiti piccoli, eravamo sicuramente felici. Ogni tanto sentivamo cadere dei sassi, l’eco della valle non rendeva facile la localizzazione dei rumori, solo dopo che ci siamo abituati alla vastità del luogo ci siamo accorti di un grosso branco di camosci che era sparpagliato nel basso del ghiaione, alcuni piccoli scorrazzavano più in alto ed erano loro a far cadere i sassi. Momenti così speciali sono difficili da raccontare, ti si imprimono sulla pelle, ti rimangono impressi negli occhi, nel cuore, non è proprio possibile renderli palpabili con le parole. Non riusciamo ancora a leggere la vetta che volevamo raggiungere, il profilo della cresta che sale e che si raccorda con la lunga parete che chiude l’anfiteatro, la lasciano solo intuire, siamo ancora piuttosto bassi. Riprendiamo a salire sempre sul lato destro della valle, il sentiero si perde in alcuni facili salti rocciosi, seguendo linee logiche e qualche omino li superiamo senza difficoltà. Dalla testata della valle (+50 minuti), uno sguardo indietro è d’obbligo, tanti i dettagli che è difficile mettere insieme, il profondo scivolo ghiaioso senza fondo che si inabissa nella valle principale di Selvaromana, il sottile profilo di sentiero appena salito, le gobbe di Selvaromana e più dietro la costa della Maielletta dove scorre il nastro asfaltato fino al Pomilio e poi le colline e poi il mare; tutto è contenuto e quasi costretto tra le esagerate verticalità della parete Nord delle Murelle e quella che potremmo definire come l’anticima del Focalone dove si trova appollaiato il bivacco Fusco, tante immagini, tutto veramente tanto e bello, quasi stordisce per quanto. Catalizzante, confonde quasi anche l’anfiteatro delle Murelle, quando incamminati alla ricerca dell’attacco del sentiero G5 ci troviamo nel bel mezzo delle tante gobbe erbose e del circolo di rocce che lo formano le dimensioni diventano esagerate, enormi, ci si sente come dentro un cratere dalle alte pareti; svariate volte ho amato questa valle e le montagne intoro osservandole dal Fusco ma starci dentro è entusiasmante, infinitamente un’emozione più potente. Bello il posto ma dovevamo trovare l’imbocco del sentiero G5 (troveremo la segnaletica lungo il percorso, molto sbiadita, sicuramente inattuale viste le ultime edizioni delle carte che riportano il G5 sul versante Sud della Majella, oltre grotta Callarelli); avevo studiato da alcune mie vecchie foto scattate dal bivacco Fusco la traccia del traverso che saliva in cresta, un filo di traccia appena percettibile; non mi aspettavo di trovare segnali e sapevo che dovevo solo cercare la traccia a terra per poi seguirla, girovagando sulla piana e buttando di frequente un occhio al pendio sono riuscito ad intuire la linea di salita, l’ho seguita fino in basso per localizzare dove atterrasse, e dove altro se non nei pressi di un ometto di pietre messo allo scopo che ho visto solo una volta che mi sono avvicinato? Una volta imboccata la traccia ci si accorge che si tratta di un sentiero marcato, sale traversando con una pendenza per niente affannosa, prima tra le praterie ormai arse e poi, più in alto, su ghiaia e roccia; raggiunge la cresta relativamente in basso, nei pressi di un grossa torre sporgente e visibile già da fondo valle. Una volta sulla dorsale gli orizzonti si allargano fino al mare ed iniziano a comparire i primi segnavia, come detto molto sbiaditi e con l’obsoleta sigla G5, è chiaro che si tratta di un sentiero in disuso e poco manutenuto. Tra ometti e la traccia a terra sempre molto evidente la salita continua per cresta, affacciandosi ora sull’anfiteatro ed ora sulla valle attigua e secondaria che scende dalla cima delle Murelle, una regia sapiente stava facendo salire nubi grigie e frastagliate che hanno giocato con le rocce e le cime intorno conferendo all’ambiente dei connotati ancora più severi e suggestivi. Avvicinandosi alla vetta la dorsale si impenna un po’ e si prende a camminare su una distesa di grosse grosse pietre acciottolate le une sulle altre, saltando a tratti come camosci arriviamo sotto la vetta (+ 1 ora) che viene anticipata da un bastone incastrato su un ometto, la semplice croce che ricordavo arriva pochissimo dopo, la tocchiamo quando nel mentre le nuvole si riaprono, si sfilacciano e diradano in pochi minuti, 10 alla regia!! Inutile parlare della felicità di Marina, gli si legge in faccia, quasi non ci crede di essere sulle mitiche Murelle. Rimaniamo in vetta a lungo, è una montagna vera, abbiamo solo montagne vere intorno; il vallone di Acquaviva, la parte alta del vallone, è profonda, arida, brecciosa, ci divide dalla tonda mole dell’omonimo monte e ispira avventura, chissà quanto è complicato seguendola raggiungere la grotta Callarelli, che con linee ipotetiche nella mia mente localizzo laggiù dietro, dopo che il vallone si è ristretto e probabilmente tra un salto ed un altro inabissato velocemente? Averci il tempo e la gamba giusta sarebbe da imboccarla questa valle, un sentiero anche se tratteggiato è riportato pure sulle carte, raggiungere Grotta Callarelli e risalire dalla parte opposta, sui fianchi della val Serviera per atterrare a Colle Bandiera e alla fine a Palombaro, la mia fantasia aveva già ingaggiato un duello con i sogni, una traversatadella Majella, fantastico, chissà... L’Acquaviva, il Focalone, la ruvida cresta delle Murelle stessa, sono deserti d’alta quota, acciottolati lunari che puoi realizzare solo in Majella. E’ davvero una montagna diversa questa, Marina se ne ronde conto, non somiglia a niente, se la gode tutta. Un’ampia e ben marcata traccia in cresta verso Nord Ovest indica la via del rientro, la prendiamo dopo una buona mezz’ora di beata solitudine; lascia ben presto il passo a ud un sentiero meno marcato, ad un non sentiero, da trovare, da guadagnare mani e piedi con dei momenti molto divertenti ed altri leggermente esposti. Magnifico sul filo di cresta l’affaccio sull’anfiteatro e sulla muraglia ruvida e ripida che lo chiude; sono angoli di montagna unici per l’Appennino, Marina ne è entusiasta, affascinata, io non sono da meno e cerco in ogni passo i ricordi della prima salita ormai antica e avvenuta circa 10 anni fa. La cresta, camminiamo ora sul filo ora poco sotto, si abbassa e dopo averla percorsa per circa 400 metri termina su un sentiero in piano e ben tracciato; quello che sale sul ghiaione tra il Focalone e l’anticima dell’Acquaviva è davanti a noi sulla sinistra, lo ricordo ripido e scomodo, era nei miei piani rifarlo per portare Marina sulla vetta dell’Acquaviva ma la giornata era avanzata troppo ed abbiamo preferito ripiegare su una traccia che avremmo dovuto cercare la cui ispirazione ci è stata data consultando il blog di AUAA del nostro amico Tonino. Non è stato difficile trovarne l’imbocco, invece di piegare a sinistra per il breccione che sale all’Acquaviva abbiamo continuato a mezzacosta in direzione del torrione che avevamo davanti, anticipazione della cima del Focalone, quando il versante riprende a salire e si intuisce già la flebile traccia che sale ripida a fianco del torrione, viriamo per linee logiche sui pratoni verso destra a raggiungere di nuovo il ciglio di ciò che sembra una cresta o una nuova dorsale; quando arriviamo una quarantina di metri sotto scorgiamo un grosso omino di rocce, da lì parte una sottile ma evidente traccia che attraversa senza perdere quota la testata di quella che è una secondaria valle che si dirama dall’anfiteatro delle Murelle; sfiorando una parete rocciosa, la testata del Focalone verso la valle, si è costretti ad attraversare un piccolo nevaio che non ci procura assolutamente nessun problema. Un angolo nascosto e remoto rispetto alla grande valle, dopo il nevaio, proprio sulla testata della valle, la traccia riprende a salire fino a raggiungere una nuova piccola dorsale che introduce in una ulteriore secondaria valle più ampia con vista ormai sul bivacco Fusco; per non abbassarci troppo e rimanere in quota non seguiamo la traccia, continuiamo per pratoni ma forse, con la logica del dopo, sarebbe stato conveniente seguirlo per risparmiare inutili difficili equilibrismi. Questo traversare continuo e superare piccole valli ed un paio di dorsali, oltre che darci modo di percorrere un sentiero nuovo ci ha permesso di osservare le Murelle da ogni angolazione, ognuna più stupenda della precedente. Raggiungiamo il bivacco (+2 ore dalla vetta), è stato un bel scendere ed un bel traversare, eppure di strada da fare ne rimaneva ancora tanta; riprendiamo a scendere per il sentiero normale verso la sella dell’Acquaviva, intercettiamo fonte Fredda che per fortuna, se pur a fiotti, sgorgava di acqua freschissima, ne eravamo rimasti quasi privi, ci contavamo. La discesa alla sella non finiva mai, è anche scomoda al limite dell’impervio, forse cominciavamo ad essere un po’ stanchi e sentivamo nelle gambe ogni difficoltà; la raggiungiamo e riprendiamo a salire lentamente il lungo traverso che doveva riportarci sotto il Blockhaus, interminabile, per fortuna la valle di Selvaromana, le sue gobbe, quella successiva delle Tre Grotte sono così belle colpite dalla luce di traverso del pomeriggio che un po’ ci distraggono. Raggiungiamo la palina sotto il Bockhaus e decidiamo di non salire diretti, abbiamo preferito aggirare il monte come abbiamo fatto la mattina, era più lungo il sentiero ma anche più agile e con un dislivello più distribuito. Dove finisce il sentiero riprende l’asfalto della strada che porta al Pomilio, le motivazioni non esistevano più e temevamo quel tratto di rientro; tagliamo per i prati fin tanto ci è stato possibile e dopo 2 ore e 10 minuti dal Fusco lo raggiungiamo praticamente senza più motivazione e voglia di camminare ancora. Per la cronaca abbiamo impiegato poco più di 8 ore per coprire i circa 19 chilometri di oggi e i circa 900m. di dislivello, abbiamo un passo sicuramente non veloce ma tanto basta per far capire l’impegno che serve metterci. Birra e patatine ed un ricco tagliere consumato al rifugio Pomilio, insieme ad un po’ di ombra e quiete ci hanno rimesso velocemente in sesto. La Majella è davvero un mondo speciale e unico, non solo per le sue montagne e per i suoi panorami che da lontano non sospetteresti di poter vivere, ma anche per le sue dimensioni, per i tempi che servono per affrontarla, da dove la prendi tutto è lontano, per tutto serve coprire dislivelli notevoli, a volte scenderli e risalirli. La Majella da lontano è una montagna informe, un grosso cupolone che mai diresti essere così complesso quando inizi a starci nel mezzo; ogni volta che scendi da lassù ti rimangono dentro le valli selvagge, rimangono in testa quelle linee e la voglia di seguirle, di andarsi ad infrattare col rischi di rimanere appiccati e dover risalire. La val Serviera ad esempio, che si raggiungerebbe all’altezza della grotta Callarelli scendendo dal vallone dell’Acquaviva che avevamo oggi sotto, è impercorribile se non con una innumerevole serie di corde doppie per superare i tantissimi salti rocciosi; non servono le corde per la val Forcone che scende dall’omonimo monte ma la complessità è comunque notevole per orientamento, accentuata ripidità e mancanza di sentieri e tracce ben disegnate o ormai perse nel tempo; per non parlare della valle del Macellaro, ad un certo punto impossibile da percorrere perché si chiude repentinamente su un muro . Misure, distanze, dislivelli, difficoltà a volte anche sconosciute rendono la Majella il territorio più selvaggio, forse l’ultimo degli Appennini, quello meno conosciuto, a tratti quasi impercorribile; per questo forse nutre e mantiene il suo fascino, per questo forse le sue storie di brigantaggio, di pastorizia arcaica, le sue storie che sconfinano nella leggenda, le sue grotte pastorali non smettono mai di attrarre escursionisti. Ad avere ancora la gamba adatta! La Majella è la montagna su cui finire la storia escursionistica di ognuno, quella che non basta una vita per conoscerla tutta.